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IL NOSTRO MOMENTO

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Si dice da sempre che la musica rock sia la musica giovane, anzi la musica per i giovani. E sì, sono senz’altro per la maggior parte i ragazzi che si ritrovano sotto qualche palco per ballare, cantare, scatenarsi e rimarcare anche fisicamente, oltre che spiritualmente, la loro giovinezza.

Anche i mezzi di comunicazione hanno sempre definito il rock come la musica giovane; io stesso ho avuto ampiamente modo di verificare quanto sopra durante la mia lunga permanenza nei Modena City Ramblers: l’85% del pubblico era – ed è ancora – composto da giovani e giovanissimi.

Poi però, come sempre, esistono delle eccezioni. Esistono cioè dei momenti in cui la musica – anche quella rock –  è destinata a persone meno giovani, scatenando inevitabilmente un’ondata di emozioni variegate e fortissime,  pari a quelle vissute da persone più giovani e ristabilendo un ordine democratico e paritario tra le diverse generazioni. Il 27 luglio 2014 io ho assistito ad uno di questi momenti, e per la prima volta mi sono trovato dall’altra parte della barricata, ossia tra i cosiddetti matusa.

L’evento si è verificato a Cortona (AR), splendida città etrusca adagiata sulle colline della Valdichiana, nell’ambito del Mix Festival 2014; protagonista dell’evento uno dei mostri sacri della musica rock progressive, il chitarrista STEVE HACKETT, che accompagnato da un gruppo di musicisti si è prodotto in una delle serate tecnicamente più potenzialmente pericolose per quanto riguarda la produzione di ferormoni nostalgici liberi nell’organismo umano: suonare la musica dei primi GENESIS! Dalla notte dei tempi il gruppo inglese è stato uno dei più amati della scena prog anni 70, e la dipartita di PETER GABRIEL nel 1974 sostituito da PHIL COLLINS ha scatenato dibattiti infiniti e discussioni intensissime tra i fans: meglio prima o dopo? Qual’è la migliore line up del gruppo? e via discorrendo. Adesso Hackett si presenta in tour con un gruppo di musicisti sconosciuti ai più nell’intento di riprodurre quella magia e quel suono senza i suoi celebratissimi ex colleghi. Salto mortale senza rete, viene da pensare. Ma la curiosità è davvero troppa per mancare.

Arrivo a Cortona nel tardo pomeriggio. L’atmosfera è davvero splendida: oltre ai tantissimi turisti stranieri che abitualmente invadono la città ci sono molte persone dirette al concerto e ai vari appuntamenti che il Festival ha organizzato. Mentre salgo la ripida salita che porta in piazza Signorelli sento delle voci microfonate provenire da dentro una chiesa: metto il naso dentro e vedo ERNESTO ASSANTE e GINO CASTALDO, ossia il gotha del giornalismo musicale italiano, intervistare la segretaria dei BEATLES. Subito mi scappa un sorriso: c’è qualcosa di diverso dal solito, dai soliti concerti. Fatico un attimo a mettere a fuoco di cosa si tratta, e proseguo la mia salita verso la piazza. Arrivo in una piazza piena di gente, dove lo spazio del concerto era già delimitato da transenne che però consentivano ancora un passaggio pedonale. Sento della musica provenire dal palco e mi affaccio: c’è ancora il gruppo sul palco che fa il soundcheck, stanno provando THE RETURN OF THE GIANT HOGWEED. Mi guardo intorno e mi vedo circondato da tanta gente, tutta con un telefono o un tablet in mano intenta a riprendere la scena. Hanno tutti sopra i quarant’anni e soprattutto hanno tutti la medesima espressione: occhi sbarrati e la bocca semiaperta in un sorriso diviso tra sorpresa e felicità estrema. E allora capisco qual’è la cosa diversa rispetto ad altre situazioni che prima mi sfuggiva: siamo tutti vecchietti! Siamo, ovviamente ma non troppo, un pubblico di mezz’età che ha colto l’occasione di sentire della musica meravigliosa dal vivo per la prima volta nella loro vita, suonata non da una cover band ma da uno dei protagonisti originali. Una volta compreso tutto questo, non vedo l’ora che si inizi.

Raggiungo il mio posto a sedere, e mentre aspettiamo nell’impianto suona della musica, in molta della quale spadroneggia una cornamusa irlandese. Segno buono, penso…Alle 21,30 esatte tra l’entusiasmo generale parte l’inconfondibile arpeggio di apertura di DANCE ON A VOLCANO. Il gruppo suona bene, la resa è più che buona, per quanto sia ovviamente impossibile non sentire l’assenza di Gabriel e Collins, ma tutti svolgono il proprio compito con diligenza, attenzione e professionalità. Il suono della Gibson di Hackett troneggia, ora cattivo ora dolcissimo, proprio come in quegli album che abbiamo tutti divorato per anni. In più di un momento la commozione prende il sopravvento: sentire dal vivo THE MUSICAL BOX, DANCING WITH THE MOONLIT KNIGHT o SUPPER’s READY suonata da Hackett in persona non ha prezzo. Mi guardo ancora intorno: ci sono amici, tanti, e persone che non conosco, tutti della mia generazione. Molti di noi hanno gli occhi lucidi, altri cantano, moltissimi sorridono. Ed è lì che mi accorgo che i veri protagonisti della serata siamo noi. E’ la nostra serata. Il nostro momento. Per una sera i ragazzi più giovani passano in secondo piano. Certo, ce n’erano alcuni tra il pubblico, ma quella è la serata della nostra riscossa, la carica degli ultraquarantenni! Siamo di nuovo, per una sera, liberi di cantare, ridere, piangere, godere fisicamente per la cosa più bella che ci sia al mondo: la musica. E che musica: i Genesis in persona! Attenzione: non si tratta solo di nostalgia per quando eravamo giovani e quindi le cose erano per forza migliori. C’è di mezzo, secondo me, anche un discorso musicale trasversale, un pensiero a quando la musica aveva un’importanza diversa nella nostra società. Ed è come sottolineare di nuovo, ricordare che era possibile scrivere qualcosa di bellissimo che non durasse necessariamente tre minuti e mezzo altrimenti le radio non l’avrebbero passata; e visto che ancora oggi gli stessi protagonisti di quella musica sono in giro a suonarla, personalmente voglio credere che sia ancora possibile farlo oggi. Se poi dura cinque minuti anzichè sette pazienza! Finito il concerto, come una volta, tutti a discutere: questo brano è venuto meglio, quello peggio, il bassista bravissimo, ma insomma, a me è piaciuto più il tastierista, certo che Collins e Gabriel…tutto sempre col sorriso di chi ha consumato la sua riscossa. Se mai ce ne fosse bisogno mi rendo conto, sempre di più, del potere della musica.

Quando è buona.

IO E JOHN RENBOURN

Qualche tempo dopo la prima jam session di una certa importanza, quella con Pierre Bensusan al Velvet di Castiglion Fiorentino (AR), arrivò a suonare nel locale un vero e proprio mostro sacro della chitarra, quel JOHN RENBOURN che insieme ad un vero e proprio gruppo di fenomeni diede vita ai PENTANGLE ed al folk revival britannico. Vista la precedente esperienza con Pierre Bensusan, il mio già citato amico Paolo Brasini (mi ripeto un pò ma devo davvero molto a questa persona, grazie Paolino!) pensò bene di organizzare una vera e propria ospitata nell’ambito del concerto, con tanto di prove pomeridiane e soundcheck; insomma un concerto in piena regola insieme ad uno dei miei eroi di sempre!

Mi presentai quindi carico di emozione al locale: dopo i saluti di rito ci mettemmo sul palco e provammo un pezzo che  avevo pensato di suonare con il low whistle, ottenendo però risultati solo discreti, nessuno sembrò particolarmente soddisfatto. Andai a cena con una sensazione mista di reverenza e fifa, perchè le prove non erano state davvero tranquillizzanti….

La magia di certe situazioni, però, mi venne in soccorso poco dopo.

Mi ricordai di avere provato, molto tempo prima, un brano tratto dal suo The black balloon intitolato THE MIST COVERED MOUNTAIN OF HOME, dove la sua chitarra magica suonava insieme ad un flauto traverso una melodia davvero bellissima. Così, poco prima che lui salisse sul palco, gli chiesi se se la ricordava e se avesse voluto suonarla. Lui accettò subito e cominciò il suo concerto…

Verso la fine, poi, arrivò il mio momento. John mi annunciò con tutti i crismi ed io, semplicemente terrorizzato, mi presentai con lo strumento a suonare un pezzo insieme a John Renbourn senza neanche averlo provato! La prima strofa la fece lui da solo, poi cominciai a suonare…ed ecco la magia! Tutto perfetto, suoni splendidi, brano meraviglioso. In sala non volava una mosca, c’erano molti amici miei e si percepiva uno strano miscuglio di stupore, ammirazione e felicità…

Appena finì il pezzo la sala esplose in un applauso grande ed affettuoso, davvero commovente; ho un ricordo molto definito di quel momento, lo considero forse il primo “successo” personale davanti ad un pubblico. La serata proseguì con un John Renbourn entusiasta quasi più di me, che si fece portare una bottiglia di vino bianco che finimmo velocemente, bevendola in parti uguali (sic), e che non la finiva più di farmi domande su come avessi cominciato, cosa stessi facendo musicalmente ecc. Facemmo le ore piccole e, ovviamente, quella notte dormii davvero poco…

PROGRESSIVE ROCK

 

Frequentavo la scuola superiore quando formammo con gli amici il primo gruppo musicale; ovviamente si partiva dalle cover, e mentre tutti proponevano brani rock di artisti quali Deep PurpleLed Zeppelin (alzi la mano chi non è stanco suonare Smoke on the water) la mia attenzione veniva catturata da qualcosa di più impegnativo: il progressive rock. Si trattava di un filone musicale caratterizzato da grande capacità tecnica, tempi spezzati, brani lunghissimi (in certi casi anche una facciata intera di album) ed un immaginario che per certi versi poteva anche essere considerato precursore del celtico o della new age. Suonando io il basso furono gruppi come Yes o Rush i prediletti, ma anche Gentle Giant, King Crimson e gli adorati Jethro Tull.

Il progressive rock è una vera trappola: una volta che sei abituato a certi standard diventa difficile che qualcosa di più semplice ti possa colpire allo stesso modo (ci ho messo un sacco di tempo prima di ammettere la grandezza dei Talking Heads, per esempio), ma è stata una palestra di fondamentale importanza per le mie capacità musicali. Una volta che ti sei allenato – per molto tempo, invero – sopra i dischi dei gruppi sopra citati ma anche di Kansas, Van der Graaf Generator o Genesis acquisisci una padronanza tale dello strumento da poter  cimentarti in molti altri generi con estrema facilità.

Potremmo dire che tutti questi grandi gruppi avessero in comune la ricerca della bellezza, quindi un senso estetico davvero elevato; per quello, secondo me, non passeranno mai veramente di moda. Perchè sarà la bellezza a salvare il mondo di oggi. Per capire cosa intendo andate a sentire il brano NON MI ROMPETE del Banco del Mutuo Soccorso… Provate anche a sentire altri artisti italiani: Le Orme, PFM… Siamo da sempre un paese pieno di bellezze e fu secondo me normale che il genere progressive divenne molto popolare in Italia negli anni ’70.

In conclusione, vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare tutti questi artisti i quali, grazie anche all’aiuto di discografici illuminati, lavoravano in totale e completa libertà, privi di vincoli di minutaggi radiofonici o di altro tipo. Da quella libertà sono nati tantissimi capolavori che hanno fatto la storia della musica; ed è a quella libertà che io, per quanto faccia parte della generazione successiva, cerco di fare riferimento quando suono, scrivo o produco musica.

 close to the edge

Frequentavo la scuola superiore quando formammo con gli amici il primo gruppo musicale; ovviamente si partiva dalle cover, e mentre tutti proponevano brani rock di artisti quali Deep PurpleLed Zeppelin (alzi la mano chi non è stanco suonare Smoke on the water) la mia attenzione veniva catturata da qualcosa di più impegnativo: il progressive rock. Si trattava di un filone musicale caratterizzato da grande capacità tecnica, tempi spezzati, brani lunghissimi (in certi casi anche una facciata intera di album) ed un immaginario che per certi versi poteva anche essere considerato precursore del celtico o della new age. Suonando io il basso furono gruppi come Yes o Rush i prediletti, ma anche Gentle Giant, King Crimson e gli adorati Jethro Tull.

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Il progressive rock è una vera trappola: una volta che sei abituato a certi standard diventa difficile che qualcosa di più semplice ti possa colpire allo stesso modo (ci ho messo un sacco di tempo prima di ammettere la grandezza dei Talking Heads, per esempio), ma è stata una palestra di fondamentale importanza per le mie capacità musicali. Una volta che ti sei allenato – per molto tempo, invero – sopra i dischi dei gruppi sopra citati ma anche di Kansas, Van der Graaf Generator o Genesis acquisisci una padronanza tale dello strumento da poter  cimentarti in molti altri generi con estrema facilità.

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Potremmo dire che tutti questi grandi gruppi avessero in comune la ricerca della bellezza, quindi un senso estetico davvero elevato; per quello, secondo me, non passeranno mai veramente di moda. Perchè sarà la bellezza a salvare il mondo di oggi. Per capire cosa intendo andate a sentire il brano NON MI ROMPETE del Banco del Mutuo Soccorso… Provate anche a sentire altri artisti italiani: Le Orme, PFM… Siamo da sempre un paese pieno di bellezze e fu secondo me normale che il genere progressive divenne molto popolare in Italia negli anni ’70.

darwin

In conclusione, vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare tutti questi artisti i quali, grazie anche all’aiuto di discografici illuminati, lavoravano in totale e completa libertà, privi di vincoli di minutaggi radiofonici o di altro tipo. Da quella libertà sono nati tantissimi capolavori che hanno fatto la storia della musica; ed è a quella libertà che io, per quanto faccia parte della generazione successiva, cerco di fare riferimento quando suono, scrivo o produco musica.

 

PLANXTY– The well below the valley

Quando nel 1991 mi ritrovai in Irlanda, alla ricerca di qualcosa
che identificasse il suono irlandese tradizionale,
girai per diversi giorni entrando in numerosi pubs di Dublino dove potei sperimentare sessions del tipo singalong, ossia “cantate-tutti-insieme”, oppure a Galway altre sessions totalmente strumentali,e cercai ovviamente anche molti dischi, visto che il tempo per rimanere in Irlanda per imparare e conoscere la musica del posto era limitato.E fra i dischi che mi capitarono per le mani c’era pure questo, con una bellissima copertina riproducente the Book of Kells, meraviglioso codice miniato conservato presso il Trinity College di Dublino.
Metto su il cd e si parte con CUNLA, pipe solo di Liam O’Flynn. E quelle pipes con una ancia molto aperta, un gran bel suono chioccio,mi proiettarono istantaneamente in un tempo passato, in un mondo che per me non c’era più ma che all’epoca in Irlanda c’era ancora. Così come nel pezzo successivo,PADDY O’REILLY, la voce di Andy Irvine è una voce di un’altra era, di un mondo fatto di legno e paglia, di storie lette e/o cantate davanti al fuoco di un caminetto, magari dal nonno prima che i nipoti vadano a letto.Quando poi alla fine del disco, dopo momenti di storia pura come AS I ROVED OUT o BEAN PHAIDIN, mi trovai ad ascoltare un brano come TIME WILL CURE ME, che a distanza di 35 anni considero ancora oggi un brano di contemporary folk, capii che quel qualcosa che non conoscevo e che stavo cercando l’avevo trovato….Da lì in poi approfondii la storia di quel gruppo e di tutti quei grandi musicisti che lo componevanothe well

Quando nel 1991 mi ritrovai in Irlanda, alla ricerca di qualcosa
che identificasse il suono irlandese tradizionale,
girai per diversi giorni entrando in numerosi pubs di Dublino dove potei sperimentare sessions del tipo singalong, ossia “cantate-tutti-insieme”, oppure a Galway altre sessions totalmente strumentali,e cercai ovviamente anche molti dischi, visto che il tempo per rimanere in Irlanda per imparare e conoscere la musica del posto era limitato.E fra i dischi che mi capitarono per le mani c’era pure questo, con una bellissima copertina riproducente the Book of Kells, meraviglioso codice miniato conservato presso il Trinity College di Dublino.
Metto su il cd e si parte con CUNLA, pipe solo di Liam O’Flynn. E quelle pipes con una ancia molto aperta, un gran bel suono chioccio,mi proiettarono istantaneamente in un tempo passato, in un mondo che per me non c’era più ma che all’epoca in Irlanda c’era ancora. Così come nel pezzo successivo,PADDY O’REILLY, la voce di Andy Irvine è una voce di un’altra era, di un mondo fatto di legno e paglia, di storie lette e/o cantate davanti al fuoco di un caminetto, magari dal nonno prima che i nipoti vadano a letto.Quando poi alla fine del disco, dopo momenti di storia pura come AS I ROVED OUT o BEAN PHAIDIN, mi trovai ad ascoltare un brano come TIME WILL CURE ME, che a distanza di 35 anni considero ancora oggi un brano di contemporary folk, capii che quel qualcosa che non conoscevo e che stavo cercando l’avevo trovato….Da lì in poi approfondii la storia di quel gruppo e di tutti quei grandi musicisti che lo componevano

THE BOTHY BAND

Il negozio di dischi di Galway per antonomasia è oggi, come nel 1991, Mulligan’s.
All’epoca le mie mani frugavano ansiose di trovare qualche informazione in più per poter capire e suonare la musica irlandese; proprio mentre ero lì parte un brano dai diffusori che mi catturò come un incantatore di serpenti ammaestra le proprie creature. Si trattava di THE BUTTERFLY, che poi avrei scoperto essere uno dei più famosi brani dell’intera produzione del’isola.Quel brano mi introdusse ad un gruppo che avrebbe segnato in maniera irrimediabile il mio futuro:ladies and gentleman, please welcome THE BOTHY BAND, coacervo di talenti clamorosi: i fratelli MICHAEL e TRIONA O’DOMHNAIL, MATT MOLLOY (futuro riferimento di flautisti per generazioni), DONAL LUNNY (che sarebbe poi diventato forse il più grande produttore dimusica celtica e grande suonatore di bouzouki), KEVIN BURKE (caposcuola di stile violinistico) e soprattutto PADDY KEENAN, da molti definito il Jimi Hendrix delle uilleann pipes, erede diretto del gypsy Johnny Doran e uno dei due pipers che mi ha influenzato di più (l’altro è presente in un altro articolo…)Un ensemble assolutamente di primissimo livello per un sound assolutamente irripetibile per potenza, precisione e coinvolgimento. Non perdete nessuno dei loro lavori, hanno inciso quattro album: THE BOTHY BAND, OUT OF THE WIND INTO THE SUN, OLD HAG YOU’VE KILLED ME, AFTER HOURS (live in Paris).after hours
Il negozio di dischi di Galway per antonomasia è oggi, come nel 1991, Mulligan’s.
All’epoca le mie mani frugavano ansiose di trovare qualche informazione in più per poter capire e suonare la musica irlandese; proprio mentre ero lì parte un brano dai diffusori che mi catturò come un incantatore di serpenti ammaestra le proprie creature. Si trattava di THE BUTTERFLY, che poi avrei scoperto essere uno dei più famosi brani dell’intera produzione del’isola.Quel brano mi introdusse ad un gruppo che avrebbe segnato in maniera irrimediabile il mio futuro:ladies and gentleman, please welcome THE BOTHY BAND, coacervo di talenti clamorosi: i fratelli MICHAEL e TRIONA O’DOMHNAIL, MATT MOLLOY (futuro riferimento di flautisti per generazioni), DONAL LUNNY (che sarebbe poi diventato forse il più grande produttore dimusica celtica e grande suonatore di bouzouki), KEVIN BURKE (caposcuola di stile violinistico) e soprattutto PADDY KEENAN, da molti definito il Jimi Hendrix delle uilleann pipes, erede diretto del gypsy Johnny Doran e uno dei due pipers che mi ha influenzato di più (l’altro è presente in un altro articolo…)Un ensemble assolutamente di primissimo livello per un sound assolutamente irripetibile per potenza, precisione e coinvolgimento. Non perdete nessuno dei loro lavori, hanno inciso quattro album: THE BOTHY BAND, OUT OF THE WIND INTO THE SUN, OLD HAG YOU’VE KILLED ME, AFTER HOURS (live in Paris).

DAVY SPILLANE

Il 1 agosto 1991 tornavo dall’Irlanda con il mio set di uilleann pipes e la consapevolezza di avere davanti a me un lavoro improbo da compiere per imparare quello strumento diabolico; avevo raccolto anche una discreta quantità di dischi e cd sui quali contavo moltissimo per capire qualcosa in più su come si suonassero le uilleann pipes. Tra questi dischi ce n’era uno che raffigurava un suonatore di pipes in copertina: lui era Davy Spillane ed il disco era Shadow Hunter. Il primo ostacolo fu capire che Spillane è mancino, e che quindi tutto lo strumento andava indossato specularmente rispetto alla foto…Oltre a questo da quel disco imparai anche un’altra cosa, importantissima: esisteva un modo alternativo per suonare le pipes rispetto a quello tradizionale, e la mia formazione rock non poteva che gioire per questo. Le uilleann pipes sono lo strumento più versatile in assoluto della famiglia delle cornamuse, così grazie a cotanto esempio ho imparato a suonare le uilleann nel modo più libero e creativo possibile, usandole ora come una chitarra elettrica, ora come una voce. Successivamente approcciai anche la musica davvero tradizionale, ma ormai la traccia era stata segnata. Chi non conoscesse la musica di Davy Spillane vada a sentire il brano Midnight Walker, dall’album Pipedreams.

Chiudete gli occhi. Pensa a tutto lui….

RUSH – Moving Pictures

 

Per chi non lo sapesse, molto prima di suonare le uilleann pipes ero dedito a suonare il basso,con un paio di gruppi più che altro dediti a cover di vario genere. Non avevo  una figura di riferimento tra i bassisti nella musica che ascoltavo: il più originale ed interessante era senz’altro Chris Squire degli Yes, che però usava il plettro ed a me quesa cosa non piaceva. Poi il mio grande amico Andrea Nocentini, fine conoscitore di musica e grande batterista, mi fece sentire questo disco suonato da un trio canadese nelle cui fila militava Geddy Lee al basso. Fu una autentica folgorazione: stilisticamente non avevo mai sentito niente di così creativo e poderosamente ritmico al tempo stesso. Mi sembrò soprattutto un modo molto divertente di suonare il basso, un modo che ti consentiva anche di divertirsi e di concedersi qualche eccesso rispetto alla semplice linea ritmica. Aggiungete al gruppo un chitarrista come Alex Lifeson ed un batterista come Neil Peart e la partita è definitivamente chiusa: capolavori come Tom Sawyer, YYZ o Limelight non si scrivono tutti i giorni. Testimonianza della eccezionale qualità del combo canadese è la loro longevità: sono ancora in pista dopo 37 anni con una qualità ed un professionismo ineguagliati.moving pictures

Per chi non lo sapesse, molto prima di suonare le uilleann pipes ero dedito a suonare il basso,con un paio di gruppi più che altro dediti a cover di vario genere. Non avevo  una figura di riferimento tra i bassisti nella musica che ascoltavo: il più originale ed interessante era senz’altro Chris Squire degli Yes, che però usava il plettro ed a me quesa cosa non piaceva. Poi il mio grande amico Andrea Nocentini, fine conoscitore di musica e grande batterista, mi fece sentire questo disco suonato da un trio canadese nelle cui fila militava Geddy Lee al basso. Fu una autentica folgorazione: stilisticamente non avevo mai sentito niente di così creativo e poderosamente ritmico al tempo stesso. Mi sembrò soprattutto un modo molto divertente di suonare il basso, un modo che ti consentiva anche di divertirsi e di concedersi qualche eccesso rispetto alla semplice linea ritmica. Aggiungete al gruppo un chitarrista come Alex Lifeson ed un batterista come Neil Peart e la partita è definitivamente chiusa: capolavori come Tom Sawyer, YYZ o Limelight non si scrivono tutti i giorni. Testimonianza della eccezionale qualità del combo canadese è la loro longevità: sono ancora in pista dopo 37 anni con una qualità ed un professionismo ineguagliati.

JETHRO TULL – Aqualung

Ho letto una intervista a Ian Anderson in cui il musicista raccontava come al momento della incisione di Aqualung il gruppo andò a registrare in uno studio nuovo di zecca, con tutte le tecnologie più avanzate a disposizione per l’epoca. Bene, nessuno era in grado di far funzionare lo studio in maniera appropriata e pertanto la realizzazione di questo album si rivelò difficilissima, tutta a base di sovraincisioni fatte con ascolti molto approssimativi.Chissà che questo non sia davvero il segreto di questo capolavoro che sì, contiene alcuni brani memorabili come LOCOMOTIVE BREATH o WOND’RING ALOUD o la stessa AQUALUNG, ma che secondo me ha la sua forza primaria nel suono.E’ come se tutto il suono dell’album fosse velato da una patina impalpabile ma determinante, quella patina che solo il tempo nel corso degli anni riesce a produrre e che inevitabilmente impreziosisce, conferendo quel che di classico e irripetibile.

Molto significativo poi l’atteggiamento provocatorio riguardo ai testi, polemici nei confronti della religione e della chiesa, specchio fedelissimo del carattere istrionico e  provocatore del leader, soprattutto se contestualizzato nel momento storico e culturale in cui il disco è stato composto.
Va ricordato inoltre che, dopo un periodo iniziale dove la band aveva esplorato le radici del blues, con questo lavoro Ian Anderson e soci entrano a pieno titolo nell’universo folk rock con brani come MOTHER GOOSE o la già citata WOND’RING ALOUD, inaugurando una serie di ballate acustiche suonate con il capotasto in terza posizione (da qui in avanti marchio di fabbrica inconfondibile dei JT insieme alla splendida voce di Anderson).Soprattutto quest’ultimo elemento, insieme con il modo di usare il plettro della Martin,  è stata una delle influenze riconoscibili nel mio universo musicale; sentire per credere alcune mie parti chitarristiche o anche sul buzuki.aqualung
Ho letto una intervista a Ian Anderson in cui il musicista raccontava come al momento della incisione di Aqualung il gruppo andò a registrare in uno studio nuovo di zecca, con tutte le tecnologie più avanzate a disposizione per l’epoca. Bene, nessuno era in grado di far funzionare lo studio in maniera appropriata e pertanto la realizzazione di questo album si rivelò difficilissima, tutta a base di sovraincisioni fatte con ascolti molto approssimativi.Chissà che questo non sia davvero il segreto di questo capolavoro che sì, contiene alcuni brani memorabili come LOCOMOTIVE BREATH o WOND’RING ALOUD o la stessa AQUALUNG, ma che secondo me ha la sua forza primaria nel suono.E’ come se tutto il suono dell’album fosse velato da una patina impalpabile ma determinante, quella patina che solo il tempo nel corso degli anni riesce a produrre e che inevitabilmente impreziosisce, conferendo quel che di classico e irripetibile.

Molto significativo poi l’atteggiamento provocatorio riguardo ai testi, polemici nei confronti della religione e della chiesa, specchio fedelissimo del carattere istrionico e  provocatore del leader, soprattutto se contestualizzato nel momento storico e culturale in cui il disco è stato composto.
Va ricordato inoltre che, dopo un periodo iniziale dove la band aveva esplorato le radici del blues, con questo lavoro Ian Anderson e soci entrano a pieno titolo nell’universo folk rock con brani come MOTHER GOOSE o la già citata WOND’RING ALOUD, inaugurando una serie di ballate acustiche suonate con il capotasto in terza posizione (da qui in avanti marchio di fabbrica inconfondibile dei JT insieme alla splendida voce di Anderson).Soprattutto quest’ultimo elemento, insieme con il modo di usare il plettro della Martin,  è stata una delle influenze riconoscibili nel mio universo musicale; sentire per credere alcune mie parti chitarristiche o anche sul buzuki.

LA PRIMA JAM SESSION – Pierre Bensusan

Era il 1993, credo fosse marzo. Dopo circa un anno e mezzo di studio matto e disperatissimo stavo finalmente cominciando a tirare fuori qualche suono dalle mie uilleann pipes; contemporaneamente l’amicizia con Paolo Brasini, direttore artistico del VELVET UNDERGROUND di Castiglion Fiorentino (AR) mi consentiva di vedere da molto vicino artisti di valore assoluto, scambiare con loro opinioni, sentirli dal vivo per cercare di carpirne i segreti. Naturalmente ero davvero inesperto e troppo, troppo timido per propormi come musicista in alcun modo; quindi mi limitavo ad osservare i sound check, andare a cena con gli artisti, parlarci di musica, di come era fatta la vita del musicista ecc. Poi, per scaramanzia, portavo con me anche lo strumento, non si sa mai..

Particolare sintonia scattò col grande chitarrista francese PIERRE BENSUSAN. All’epoca non lo conoscevo, ma l’amico Paolo Brasini mi assicurò che si trattava di uno dei più grandi in assoluto. Ed effettivamente lo fu, grande: un chitarrista eccezionale e davvero molto, molto originale. Inoltre, cosa che fece la differenza, una persona disponibilissima.Parlammo a lungo di tante cose: musica, cibo, politica….tutto molto gradevole. Il concerto fu assolutamente magistrale: Pierre sembrava particolarmente ispirato e non si risparmiò, deliziando il pubblico con prodezze tecniche ma anche grande intensità melodica. Finito il concerto, quando ormai se ne erano andati già tutti, Pierre venne da me e mi disse : ti va di suonare un pezzo con me? Riavutomi dalla sorpresa e dall’emozione, corsi a prendere le uilleann pipes e mi sedetti accanto a lui sul palco. Davanti a quattro o cinque amici miei, più sorpresi anche di me, tra cui LUCA BUSATTI, già presente in questo sito in altri articoli, Pierre mi fece ascoltare una melodia ancora incompiuta, e da lì partì una lunga improvvisazione (circa venti minuti)  per una atmosfera davvero unica e irripetibile. Ricordo ancora perfettamente le facce trasognate di tutti al termine del pezzo: avevo appena visto e provato come si compie la magia della musica, quella vera. Quella serata risultò apportare una spinta decisiva alla mia determinazione nel diventare musicista a tutti gli effetti: troppo preziosi quei momenti per non cercare di viverli tutti!

Non ho più avuto modo di incontrare Pierre da allora, ma approfitto di questo spazio per mandargli questo messaggio, che gli devo praticamente da allora: GRAZIE.2013-10-14_06_10_44

Era il 1993, credo fosse marzo. Dopo circa un anno e mezzo di studio matto e disperatissimo stavo finalmente cominciando a tirare fuori qualche suono dalle mie uilleann pipes; contemporaneamente l’amicizia con Paolo Brasini, direttore artistico del VELVET UNDERGROUND di Castiglion Fiorentino (AR) mi consentiva di vedere da molto vicino artisti di valore assoluto, scambiare con loro opinioni, sentirli dal vivo per cercare di carpirne i segreti. Naturalmente ero davvero inesperto e troppo, troppo timido per propormi come musicista in alcun modo; quindi mi limitavo ad osservare i sound check, andare a cena con gli artisti, parlarci di musica, di come era fatta la vita del musicista ecc. Poi, per scaramanzia, portavo con me anche lo strumento, non si sa mai..

Particolare sintonia scattò col grande chitarrista francese PIERRE BENSUSAN. All’epoca non lo conoscevo, ma l’amico Paolo Brasini mi assicurò che si trattava di uno dei più grandi in assoluto. Ed effettivamente lo fu, grande: un chitarrista eccezionale e davvero molto, molto originale. Inoltre, cosa che fece la differenza, una persona disponibilissima.Parlammo a lungo di tante cose: musica, cibo, politica….tutto molto gradevole. Il concerto fu assolutamente magistrale: Pierre sembrava particolarmente ispirato e non si risparmiò, deliziando il pubblico con prodezze tecniche ma anche grande intensità melodica. Finito il concerto, quando ormai se ne erano andati già tutti, Pierre venne da me e mi disse : ti va di suonare un pezzo con me? Riavutomi dalla sorpresa e dall’emozione, corsi a prendere le uilleann pipes e mi sedetti accanto a lui sul palco. Davanti a quattro o cinque amici miei, più sorpresi anche di me, tra cui LUCA BUSATTI, già presente in questo sito in altri articoli, Pierre mi fece ascoltare una melodia ancora incompiuta, e da lì partì una lunga improvvisazione (circa venti minuti)  per una atmosfera davvero unica e irripetibile. Ricordo ancora perfettamente le facce trasognate di tutti al termine del pezzo: avevo appena visto e provato come si compie la magia della musica, quella vera. Quella serata risultò apportare una spinta decisiva alla mia determinazione nel diventare musicista a tutti gli effetti: troppo preziosi quei momenti per non cercare di viverli tutti!

Non ho più avuto modo di incontrare Pierre da allora, ma approfitto di questo spazio per mandargli questo messaggio, che gli devo praticamente da allora: GRAZIE.

GANGS OF NEW YORK. Come ti entro nel rutilante mondo del cinema


Nel 2000  il mio amico Marcello De Dominicis, grandissimo esperto di musica popolare celtica, venne incaricato di fare il consulente musicale per il grande film di Martin Scorsese che sarebbe stato girato a Cinecittà. Servivano inoltre musicisti locali, italiani, possibilmente ferrati in materia di musica irlandese,quindi fu abbastanza automatico pensare anche al sottoscritto.

Il lavoro consisteva in registrare un paio di brani in studio, a Roma; successivamente quella musica sarebbe entrata a far parte della colonna sonora del film ed usata per il playback in fase di girato.

La registrazione in sè non fu particolarmente gratificante, ma ovviamente il cuore dell’evento fu girare una scena in un film così importante. Innanzitutto la scenografia: Dante Ferretti aveva ricostruito mezza New York nel 1860 con una dovizia di particolari incredibile. Imparai molto velocemente che è la cura dei particolari che fa la differenza a quei livelli:Scorsese mirava all’Oscar, e per vincere un Oscar con un film storico devi sciorinare una precisione nei dettagli assolutamente maniacale.

Prima fase: i costumi. Una stanza intera piena di vestiti ottocenteschi, cilindri. bombette, scarpe durissime, camicie ruvide. Poi, il tocco di classe: GRASSO DI FOCA IN TESTA!!
Pensate che profumino….

Seconda fase: l’attesa. Ore ed ore senza fare assolutamente niente se non ascoltare i racconti di alcune comparse che asserivano di aver lavorato con tutti i registi più grandi (benissimo, salvo che nessuno se li ricorderà in quanto comparse…) ed allontanare l’immancabile venditore di orologi ( aoh, so’ rolez verii!). Che scatole..

Terza fase: il professionismo americano e quello italiano. Daniel Day Lewis, Di Caprio, Cameron Diaz, Martin Scorsese: che volete di più? una qualità così alta me l’ero sognata fino ad allora. Per quanto riguarda quello italiano, successe anche questo: la scena in cui facevo la comparsa prevedeva una serie di accoppiamenti carnali nella taverna tra signorine molto poco vestite e birbaccioni in costume d’epoca; tra le signorine spiccava una certa Eva Henger, nota professionista del settore. Il set era, ovviamente, doppiamente blindato. Al terzo ciak parte la musica, noi suoniamo in playback facendo dei movimenti prestabiliti, e uno di noi viene a trovarsi esattamente davanti a Eva Henger impallando un barista il quale, incurante delle macchine che stanno girando, sbotta in un perfetto romanesco: “Ahò, scansete che nun vedo un c…!!! Vi lascio immaginare il direttore di produzione: una belva scatenata che insultava a ripetizione il povero barista…A parte tutto, comunque, una esperienza davvero indimenticabile!